Pubblichiamo il secondo articolo scritto da Olivier Barlet per il catalogo della retrospettiva parigina Africamania (17 gennaio-17 marzo 2008), curata dalla Cinémathèque Française. L’articolo è stato pubblicato contemporaneamente anche su Africultures. Di seguito la traduzione italiana.
Nello stesso momento in cui la chiusura delle sale riduce gli spazi di diffusione del loro cinema e viene loro rimproverato di aver perso il contatto con il pubblico, i cineasti africani si confrontano con l’esplosione della produzione video. Anche loro si appropriano del digitale, ma per poter avere la libertà di una nuova estetica che apra ad un immaginario adatto al presente.
Mentre nell’Africa anglofona i multiplex distribuiscono principalmente film americani, le sale cinematografiche continuano a scomparire sia nell’Africa francofona che negli altri paesi africani, tanto che si arriva a volte a contarli con le dita di una mano. Nonostante ciò, il bisogno di immagini non si esaurisce: la televisione è sempre più diffusa, e con essa i lettori vcd e dvd, con i quali la gente vede film molto spesso piratati. Il canale privato satellitare sudafricano M-Net si sta preparando alla diffusione, su tutto il continente africano, di film in vod (video on demand) e su cellulare, acquistando ad uno ad uno – pagati sull’unghia – i diritti di diffusione per 25 anni di tutte le opere del patrimonio cinematografico africano: un catalogo che varrà oro!
E così, in Africa come nel resto del mondo, il rapporto tra cinema e spettatori sta evolvendo verso una prossimità individualizzata che le mire commerciali fagocitano ogni giorno di più.
La gioventù in jeans non aspira certo ad andare in giro in boubou [abito tradizonale, n.d.t.]. Rivolgersi ad un pubblico africano non significa per questo tornare ad una autenticità culturale. Chi produce, un po’ ovunque, video a buon mercato lo ha ben compreso: non fa che riprodurre gli schemi in vigore nel cinema dominante.
Il successo di questi video è incredibile. Il giornalista burkinabè Boubakar Diallo elenca una serie di produzioni video di grande successo che non sono costati più di 40-50 mila euro per un film di 90 minuti. Questi film vengono finanziati grazie alla pubblicità: acqua minerale, telefonia mobile, motocicli, ecc. « L’idea è quella di passare attraverso il cinema di genere per riportare il pubblico in sala », spiega Diallo. « Se gli spettatori non vanno più al cinema, è perché non si offre loro quello che si aspettano ». E cita come esempio una decina di film realizzati in Burkina Faso in tre anni, tra cui un poliziesco (Traque à Ouaga), una commedia sentimentale (Sofia), un western (L’Or des Youngas), un thriller politico (Code Phoenix), ecc.
In Madagascar, l’ultimo film realizzato in 35 mm risale al 1996, l’anno di Quand les étoiles rencontrent la mer di Raymond Rajaonarivelo, ma dal 2000 si producono ogni anno una decina di lungometraggi malgasci realizzati in video. E il pubblico li segue, infischiandosene della qualità, perché questo cinema popolare, girato per così dire a casa propria, combina sogni di ascesa sociale, musiche da supermercato, storie d’amore e azione.
L’affermazione, a partire dal 1992, di una produzione video nigeriana di grande successo, capace di diventare una vera e propria industria cinematografica, è presentata un po’ ovunque in Africa come un modello di sviluppo autonomo, che non ha più bisogno di finanziamenti esterni. Con più di 1200 lungometraggi prodotti ogni anno, Lagos sta rimpiazzando Bombay! Ma che si tratti di Nollywood o di Bollywood non cambia molto le cose: pur essendo sempre di più esportata, la produzione video nigeriana non farà certo risplendere il cinema africano. Come Bollywood, questi film ultracodificati ri-raccontano all’infinito le stesse storie. Il caso del Ghana è esemplare: qui si è sviluppata una produzione video che non ha alcun legame con i talenti locali e che è nata essenzialmente per fare soldi. Secondo il regista Kwaw Ansah – che ha avuto grande successo con i suoi due film, Love Brewed in the African Pot (1980) e Heritage Africa (1987) – « Hollywood ha fatto talmente tanto contro la razza nera, e ora che abbiamo la possibilità di raccontare le nostre proprie storie, lo facciamo peggio di Hollywood! ».
I film nigeriani rielaborano le angoscie di una società che si confronta con la violenza e con l’importanza crescente dei poteri occulti e del denaro, puntando al contempo su storie di ascesa sociale e di gelosia. È difficile prevedere le conseguenze sui giovani di questa rappresentazione senza freni della violenza, tanto più che questi film riproducono un modello consumista e arrivista della società, in cui si arriva molto spesso al rinnegamento di sé a profitto di modelli esteriori. Ed è proprio un confronto negativo tra Nord e Sud – a discapito del Sud ovviamente – quello messo in scena dai più grandi successi nigeriani recenti come Dangerous Twins (Tade Ogida, 2004) o Osuofia in London (Kingsley Ogoro, 2003), che hanno venduto diverse centinaia di migliaia di copie in vcd ed hanno dato il via a una serie di imitazioni nate per ottenere lo stesso successo commerciale.
Colpito al cuore, il cinema d’autore contrattacca, non tanto per opporsi ai film popolari, ma perché, in assenza di una politica culturale, la sua esistenza e il suo ruolo di rinnovamento sono in pericolo. Cissé non gira un film da dieci anni, Ouédraogo ci ha rinunciato: produrre un film a « grande » budget è diventata una missione impossibile. Alcuni registi tengono duro e cercano di mettere insieme qualità e budget ridotti, dipendendo più che mai dagli aiuti occidentali e dalle coproduzioni. I loro film sono delle bombe lanciate contro le idee preconcette. Il digitale per loro non è che uno strumento per difendere l’autonomia della propria visione, nel documentario come nella finzione.
La leggerezza dello strumento facilita il documentario: Conversations on a Sunday Afternoon (2005) del sudafricano Khalo Matabane si intrufola con esito felice fra gli immigrati di Johannesburg. Il costo molto ridotto moltiplica le parole. Sulle tracce di documentaristi storici come il senegalese Samba Félix Ndiaye e il camerunese Jean-Marie Teno, i giovani cineasti si confrontano con il reale africano, non adottando mai uno sguardo da vittime. A cominciare da se stessi, propongono a tutti di guardarsi in faccia.
La leggerezza del digitale permette una nuova estetica anche per la finzione. Questo figlio della guerra del Biafra che è divenuto il regista Newton Aduaka, ci invita con il suo film a rimettere insieme i pezzi di una vita in frammenti che il bambino soldato Ezra non riesce a decifrare da solo. E mentre un cinema hollywoodiano a corto di espedienti drammatici continua ad impadronirsi della storia postcoloniale africana per produrre scenari apocalittici, Ezra (2007) non scivola mai nella fascinazione della violenza. Al contrario, tutto il film tende a mostrare quanto la violenza corrompa l’umano e come la sua ostentazione serva a mascherare le vere ragioni della tragedia africana: le armi continuano ad arrivare lì dove si possono ancora saccheggiare diamanti insanguinati, petrolio e risorse naturali.
Una simile narrazione disarticolata è presente anche in Zulu Love Letter (2004) del sudafricano Ramadan Suleman. Nelle immagini intermittenti di questo film non vi è alcuna estetizzazione gratuita: i fatti narrati sono così carichi affettivamente, che si colmano di immaginario. Thandeka, che ha subito le peggiori violenze, non può sottoscrivere il discorso ufficiale di riconciliazione. Del resto, questo discorso politico è inutile, se non si accompagna ad un lavoro di elaborazione del lutto nella sfera privata.
« Come fare un film premonitore in un paese che non ha futuro? Come fare un film poliziesco in un paese in cui non si possono svolgere indagini? »: reinventando la forma cinematografica con la propria Dvcam (telecamera digitale). In Les Saignantes (2006) del camerunese Jean-Pierre Bekolo il bizzarro è una nuova norma, l’estraneità un nuovo breviario, il raccoglitore una nuova forma estetica, l’inconscio il compagno obbligato, il desiderio il motore diesel. Ma non è il film ad essere sfasato: lo è la realtà. Majolie e Chouchou (!), ovvero le due Saignantes [sanguinanti]che manipolano a piacimento il sesso e la morte, non sono solamente superbe: sono una coppia infernale capace di dominare il proprio destino.
Di fronte ad una formattazione generalizzata, gli autori hanno ancora delle riserve di poesia, in grado di turbare le coscienze, in Africa come qui. L’Occidente non ha bisogno di una rigenerazione né di un meticciato, ma di saper accogliere le proposte autonome di cinema come un nuovo immaginario, in grado di guidare i sussulti del nostro mondo.
Traduzione dal francese di Maria Coletti.
L’articolo è pubblicato con la gentile autorizzazione della Cinémathèque Française.
Cette traduction a été publiée sur le site Cinemafrica [ici]///Article N° : 9966