Fortunata: una fiaba xenofoba

Analisi di una realtà italiana

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Un anno fa usciva nei cinema francesi il film Fortunata, di Sergio Castellitto, accolto in Italia nel maggio 2017. Questo lungometraggio – che ho visto su un aereo Air France in volo per il Senegal – me lo sono bevuto, con tanto di sottotitoli in francese, come un’amara medicina.

A distanza di mesi, indecisa se scrivere o meno a tal proposito, una cugina di mia madre ha inconsapevolmente azionato la marcia indietro, spingendomi ad indagare su quest’esperienza allucinatoria. È bastato un semplice aneddoto: « Sai Aminata, ho conosciuto una vecchina di 103 anni. Le ho detto: ‘Certo che di cose ne deve avere viste, signora! ‘, ma lei mi ha risposto, ‘No, ho fatto in modo di vederne il meno possibile' ». Affascinata da questo elisir di longevità, che permette di attraversare due guerre mondiali preservandosi il più possibile, mi sono chiesta se faceva per me. La risposta è stata no, dato che persino al cinema mi faccio stati d’animo. Come tante persone con origini « altre », che vengono rappresentate sul piccolo e grande schermo italiano, evidentemente non posso abbandonarmi sulla poltroncina e svagarmi, divertirmi. Allora, lasciate che mi prenda almeno la libertà di dire la mia su questo film.

La storia : Una donna divorziata da poco, Fortunata (Jasmine Trinca), porta la figlia di sette-otto anni Barbara (Nicole Centanni) dallo psicologo Patrizio (Stefano Accorsi) perché la piccola sputa: lo fa appena è contrariata, per ribellarsi all’autorità degli adulti. Fortunata, che è una parrucchiera ambulante, sta lottando per poter comprare un negozio con l’amico tatuatore Chicano (Alessandro Borghi), e anche per riuscire ad ottenere la custodia della figlia, contesa con l’ex marito guardia giurata, Franco (Edoardo Pesce), uomo violento e maschilista.  Cosa succede, qual è la storia? Chiederete voi. In breve, questa donna si indebita con un’usuraia cinese per mettere in piedi il suo futuro « negozio ». Inoltre la vita è piena di complicazioni come l’ex marito che la trascina in tribunale, la nascente relazione con lo psicologo di Barbara, la follia crescente del suo amico tatuatore, e l’inasprirsi della sua relazione con la figlia, fan sì che non possa riscattarsi e che debba abbandonare i suoi sogni professionali. Decoro del lungometraggio : una Roma periferica e fatiscente.

Ma la trama non è niente rispetto alle ghiande da porci che ci lancia il regista. Ho ancora nelle orecchie l’eco di una barzelletta di Patrizio, lo psicologo e unico personaggio « intellettuale » del film:

C’è un ragazzo africano che cammina nel deserto, è stremato e disidratato; ad un certo punto nella sabbia vede la lampada di Aladino, la prende, la strofina e dalla lampada esce il genio che esclama ‘Io esaudirò per te tre desideri’. Allora il ragazzo dice ‘Genio, io voglio essere bianco, voglio tanta acqua e voglio tanta fica’. E il genio lo trasforma … in un bidé ! »

Grazie Castellitto e Mazzantini, per avermi strappato dal sonno su quel sedile in volo verso l’Africa.

Potrei fermarmi qui. A che serve andare avanti ad analizzare un film che inserisce una barzelletta simile tra le repliche degli attori? Nulla lo può più salvare, neanche la scusa della demenza del personaggio, il suo scivolare nell’universo di chi perde la testa « per amore ». Tra l’altro, ad un certo punto, preso dalla rapsodia della sua passione per questa donna disagiata, mentre si dichiara a lei per la prima volta, viene interrotto dal suo paziente affetto da sindrome di down (Gianluca Spaziani) e in tutta risposta gli urla : « Gianluca… Vaffanculo ! ». Difficile commentare.

Eppure, anche se il clan degli sconvolti, di cui faccio parte, sa che se questo film non merita mezza riga, il clan dei superficiali pensa il contrario. Li sento già : « Ma dai, è un’innocua barzelletta che racconta alla donna che cerca di conquistare! Ma sì, Patrizio è un uomo goffo! Non vedi che Fortunata, a parte un lieve sorriso, non scoppia a ridere! Vogliamo davvero attaccarci proprio a tutto ? Manco si può più scherzare … ».

« Sti cinesi »

Il motivo per cui Barbara, otto anni, va dallo psicologo, è che sputa. Sputa perché si sente disgustata, oppressa, infelice. La madre le dice prima di dormire: “I selvaggi, sputano!” La bimba risponde “I cinesi sputano!”, e una risata condivisa fa terminare ogni conflitto generazionale. Strette nelle lenzuola sgualcite di una notte d’estate, entrambe sanno che il problema viene da fuori, che se tutto cade loro addosso, è perché ci sono quegli altri, gli stranieri, a minare le fondamenta del loro fragile equilibrio psicologico.

Per non parlare di quando Fortunata cerca di convincere Barbarella ad andare al centro estivo. La sua motivazione suona così:  “Ce stanno pure ‘e femmine!“ e la risposta della bimba, che storce il viso : “Sì … cinesi!”. La madre sorride, fatalista “Eh va beh!”, prima di concludere: “I cinesi sono i padroni del mondo! Bisogna imparare da loro, hai capito?”

E se ne insegnano di cose in questo film! ‘Sti cinesi’: ad eseguire esercizi sincronizzati, come un esercito che non s’arresta mai, un fiume umano in cui nessuno fa le cose a caso, controcorrente o spinto da sentimenti.  Fortunata, che passa tra di loro allegra  e spensierata, non capisce che non siamo in tempo di pace, ma in tempo di guerra :  c’è ben poco da sgambettare ridendo, suggerisce la musica in sottofondo in cui un rapper martella: « La gente coi soldi fa girare il mondo » !

Ci insegnano a maneggiare i soldi, appunto, e ad elargire sorrisi come fa Luciana (Liliana Fiorelli), la strozzina cinese che tesse una ragnatela in cui far cadere l’ottimista Fortunata, parrucchiera che sogna di aprire il suo negozio ma che non ottiene il prestito desiderato dalle banche e lavora porta a porta da mattino a sera.

Tra l’altro i soldi dei cinesi sono tenuti dentro un cofanetto su cui troneggia un Buddha: che religione sarà mai questa? Sembra sottintendere Fortunata quando chiede a Luciana “Ma pure in Cina c’avete gli angeli?” Lei che si sta facendo tatuare delle ali-quadrifoglio sulla schiena. Angelo sconsacrato, ingenua de mamma!

Ci spiegano che anche se li chiamiamo « stronzi », come fa Chicano, finché andiamo a mangiare nei loro ristoranti e gonfiamo loro le tasche, che gli importa a questi?!

Come non sentirsi indignati dalla condiscendenza di Fortunata che cerca senza tregua l’approvazione del pubblico, ad esempio quando lo psicologo dice stupito alla bimba: “Non pensavo che ti piacesse il cinese!” e lei esclama, sprezzante : “Magnà, sì! ».

« Che è, una negra quella? »

Chiede la piccola Barbara al suo psicologo indicando la foto rappresentante una donna nera vestita di tessuti colorati, ad un mercato. Lui sorride, e risponde “Sì”.

Che sia in Africa, lo scopriamo poco dopo, nel film, quando Fortunata racconta all’amico Chicano, per convincerlo a chiedere consiglio al dottore sulla sua malattia: “Questo è un genio! Questo è stato in Africa a curare i malati de mente Africani. Poi sono cose da paura, perché sono diventati matti per la fame e non per le cazzate!” e anche qui non manca una bella risata rigenerante. Figuriamoci se questi uomini e donne, che hanno raggiunto l’evoluzione a fatica, possono permettersi di avere anche le sofisticate malattie mentali occidentali. Altri crucci occupano le loro menti disidratate. Ma a proposito di acqua, fame e sete, al momento dell’atroce barzelletta, dietro Patrizio e Fortunata si vede un gruppo di ragazzi neri. Certo, mentre la coppietta scherza su quelli che attraversano il deserto e che muoiono o sono vittime di allucinazioni, è necessario rassicurare che questo cliché non è un “modello unico” ma ci sono dei veri ragazzi « africani », vivi e vegeti – dietro di loro – e la loro battuta di spirito infelice.

Che poi oh, il padre dello psicologo in Africa ci è andato e ci è pure restato ! Partito con un cargo e rimasto laggiù per aprire una bisca clandestina, barattando la famiglia per una vita esotica in Costa d’Avorio. Lo si ritrova su una spiaggia piena di scimmie, a parlar francese. Per questo motivo quando Fortunata saluta Patrizio così: “’Magari te vengo a cercà in Africa !”, lui le risponde “Coi criminali di guerra!”. Ovvio, ragazzi, non riuscite a capirlo che in Africa o ti fai risucchiare dalla perdizione di un luogo senza leggi o ci vai per aiutare la gente affamata e pazza? Per questo tutti sti africani se ne vogliono scappare e lui, che invece ci è stato, ci ritornerà da bravo cristiano : a sto punto potrà pure permettersela una battuta che paragona un migrante in fin di vita ad un bidé! O no?

Salutato da una critica poco critica

Surfando sul net e cercando conferme sul fatto d’aver vissuto una carneficina di neuroni della durata di 1 ora e 43 minuti, ho scoperto che a nessuno importa sottolineare lo sfacelo morale e razzista di questo film. Anzi. Come critiche negative, ecco giornalisti a cui interessa calcare la mano sul fatto che il regista e la sceneggiatrice sono dei quartieri alti, ma vogliono descrivere « er popolo » e lo fanno in modo maldestro, con cliché sul maschilismo e il patriarcato italiani. Altri ancora che lo definiscono una favola kitsch. Ma soprattutto, voilà, articoli sull’interpretazione di Accorsi poco riuscita, e quella di Trinca, magistrale, attrice definita la nuova Anna Magnani di Mamma Roma, erede del grande cinema italiano « di casa nostra », Sofia Loren moderna, La ciociara del XXI secolo. Al punto che non solo il film è stato nominato per cinque premi a Cannes, meglio : la sezione « Un certain regard » del Festival ha attribuito a Trinca il premio per la miglior interpretazione. Ma i riferimenti alla grande tradizione classica, si spingono ben più in là nel tempo, attribuendo al ruolo di Chicano lo stesso ruolo di Antigone, dato che il ragazzo sacrifica se stesso trasformandosi in un omicida per dare alla madre Lotte (Hanna Schygulla) una morte degna della sua vita: tragica e teatrale, e liberarla così dalla malattia dell’Alzheimer. Per il resto, anche dalla critica, come dal film, viene data per scontata l’ombra del male che plana sulle loro miserabili vite: questa Roma impietosa e multietnica, con i cinesi come padroni del mondo. Altri articoli invece si concentrano sulla rappresentazione stereotipata del disagio mentale o sulla simbologia dell’affogamento, metodo con il quale sono morti il padre di Fortunata, anni prima, e la madre di Chicano poi. Oppure sul fatto che l’acqua serva a rigenerare e purificare Fortunata – e che la figlia, dallo psicologo, riproduca un’immagine tabù della psicogenealogia famigliare: quella dell’uomo morente con la testa nella sabbia.

Il padre tossico di Fortunata prima, e la madre di Chicano poi, muoiono infatti affogati, mentre gli unici africani che si vedono accanto al mare, sono stati salvati dagli italiani. Sommersi e salvati. Bianchi che si fanno affogare dalla vita, neri che si fanno ripescare dai bianchi. E un ragazzo cinese sovrappeso che ordina al bar un affogato al caffé, ennesimo schiaffo morale a questi italiani che se fanno magnà.

La morale delle anime belle

Che si tratti di musulmani che s’inginocchiano pregando in una spianata o di cinesi che si esercitano sotto la pioggia a catinelle, le comunità straniere sono rappresentate come mondi che schiacciano, a sandwich, la realtà di Fortunata, donna del popolo, italiana del ghetto dei tossici, dei matti, dei poveracci che hanno solo il gioco d’azzardo, il lavoro nero e tanto cuore per riuscire. E che oscurano pure la quotidianità di Barbara, bimba che sputa veleno perché, come un fiore intossicato, è costretta a crescere nel cemento di un quartiere dove l’infanzia dura poco.

Far dire ai bambini ciò che non si osa dire, e attraverso le loro azioni mettere a nudo il sottotraccia di una società allo sbaraglio, è una tecnica semplice ed efficace vecchia come il mondo, di cui Castellitto e Mazzantini non si privano. Anzi, che sdoganano. Quando la bambina dice che i cinesi sono selvaggi perché sputano, la madre ridendo la riprende: “Sei proprio una delinquente!”, stringendola a sé, compiaciuta che la verità esca dalla bocca della piccola, e non dalla sua.

A quanto pare in questo film tutte le minoranze devono passare la radiografia attenta d’una ragazzina che sembra essersi appena trasferita nei sobborghi di Roma – e non esserci nata. La bimba è destabilizzata da una donna sull’autobus che indossa il niqab, al punto che quando chiede alla madre:“Mamma, té te lo metteresti il burqa?” e questa non risponde, la piccola le butta addosso un block notes e scende dal veicolo trafelata, gridando. Come non stupirsi poi che il padre della piccola, Franco, urli alla moglie “Che, hai lasciato mi’ figlia incustodita con l’arabbi? ». Chi sono l’arabbi tra l’altro? Er Chicano in quanto squilibrato? Lotte, la vecchia attrice in quanto delirante? I cinesi del ristorante in quanto stranieri? Chi sono questi arabbi che minacciano la quiete esistenziale della bimba? Ah, ma forse Castellitto e Mazzantini volevano far passare Franco per il vero razzista del film! Quello che conferisce un manto da condottieri a tutti gli altri. Certo: un uomo che violenta l’ex moglie, entra abusivamente nella sua quotidianità, parla di pompini davanti alla figlia e gira con un’arma nella fondina, è per forza l’unico xenofobo sessista e fascista del film.  Scusate, non l’avevo capito che solo di lui mi dovevo preoccupare!

La vecchia Europa è troppo decadente e romantica, e allora si lascia sommergere. La madre di Chicano, attrice tedesca ormai distrutta dall’Alzheimer, recita giorno e notte le repliche dell’Antigone e di altre opere teatrali, ma è folle, non sa più ciò che ricorda, ciò che dimentica, dove si trova e chi è. Muore perché il figlio la annega per amore, mentre lui, tatuatore allucinato, finisce pazzo in una struttura psichiatrica. Con loro si chiude il capitolo dell’Occidente drammatico, onirico, tragico. Con loro finisce l’arte. Che ne è degli altri personaggi? Quando lo psicologo legge i numeri vincenti al lotto e si accorge che sono i suoi, stanno passando un servizio tv dove si annuncia il salvataggio di centinaia di migranti scampati ad un naufragio. Si vedono le immagini di bambini, uomini e donne con coperte e protezioni d’alluminio. Quanto è buona questa Italia che affonda cercando di portare in salvo gli altri. Difatti Fortunata non ottiene nemmeno un centesimo dei soldi della vincita, forse perché lui non li ritira neppure o li manda in Africa – comunque non glieli dà  – c’è chi ne ha più bisogno di lei. Niente soldi, niente materialismo per questa banda di anime belle.

Raramente ho visto un film camuffare così male il proprio fondamentale razzismo, servendosi di personaggi che si credono progressisti e generosi. Che poi, cosa distanzia questo film, con il suo carico di gente compiaciuta della propria autenticità e genuinità, dal populismo della Lega ? C’è il messaggio « prima gli italiani ». C’è la storia fra le righe di un popolo che sta scomparendo perché non abbastanza forte per resistere all' »invasione ». C’è la fobia della diversità. C’è l’interpretazione di un « obbligo angosciante »  di fare compromessi con questi « nuovi italiani » di mille colori, perché in fin dei conti si sono resi necessari. Fortunata ai cinesi chiede prestiti, mangia da loro. Lavora per loro.

Uno sguardo antropo-cinematografico

Mi sono allora consultata con un mio amico regista e antropologo, Andrea Fantino, che ha visto anche lui il film, e gli ho chiesto: « Ma secondo te che realtà vuole raccontare il film Fortunata? ». Lui, sospirando ha risposto:  » Beh, lo sfondo è quello di una Roma periferica in cui crescono i rapporti, specie economici e occasionali, tra quelli che si credono “nativi” e le comunità straniere, così come si conservano e si moltiplicano opinioni e atteggiamenti xenofobi: ‘Vengo al tuo ristorante e ti concio i capelli, ma tu per me rimani un selvaggio!’. Se queste erano le intenzioni degli autori, chapeau! Ce n’è bisogno di racconti come questi! Film così li voglio anche al nord e al sud. Film che mi raccontino di piccoli paesi, di agricoltori, di vite per certi versi più noiose dal punto di vista filmico rispetto alla solita periferia romana che si vede sugli schermi italiani. La realtà che il film vuole raccontare è quindi una realtà non solo romana. È quella realtà in cui Casa Pound e soci trovano grande consenso regalando speranze fasciste di società depurate dai nemici “altri da noi”. Ecco il razzismo. E Castellitto cosa fa? Si trasforma in una persona che aderisce a questa mentalità. Ma la domanda è: è razzista oppure no? Io non credo che lo sia, ma credo, purtroppo, che il problema sia ancora più grande ». « Cosa intendi dire? « , ho indagato.

« Il punto è che se Catellitto ha scelto quei luoghi, se la sua storia respira in quei luoghi, lui quei luoghi deve conoscerli. Perché io sono certo che ci sia razzismo e piccola delinquenza e grande squallore. Ma il regista deve farmici entrare, e io devo avere i mezzi per provare dell’empatia nei confronti dei personaggi, per capire le loro ragioni, per comprendere quanto in fondo siano vittime delle proprie diffidenze, delle mentalità xenofobe, di una miseria culturale da cui è difficile prendere le distanze. E penso a Non essere cattivo di Claudio Caligari, dove i personaggi ruotano attorno a tossicodipendenze e criminalità. Penso all’ Accattone di Pasolini. Film, questi, dove la tragedia è sentita ed è umana, e non viene tirata per le orecchie “la cultura alta” inserendo un’attrice di teatro, malata e distante da tutto. È creando un contesto, un ambiente, è lavorando su sceneggiatura, regia e interpretazioni che il reale può emergere, e può avere un senso. Altrimenti si ruba qua e là, si appiccicano dialoghi a cui è difficile poter credere. Ed è ancora più grave quando il film è stato costruito in chiave realista ».

Il mio amico Andrea Fantino, antico compagno d’università, ha dunque concluso:

« Castellitto ha sprecato una bella occasione. Perchè Jasmine Trinca è veramente molto brava. E anche Edoardo Pesce, la bambina e pure Alessandro Borghi sono capaci. Ma pensiamo alle uscite dei personaggi. La battuta di Patrizio sull’africano che si trasforma in un bidè è oscena: eppure di italiani acculturati, nei quali sonnecchia una mentalità razzista, ne esistono tanti che sicuramente si sono concessi almeno un sorriso compiaciuto. Di persone che definiscono selvagge le altre comunità, come fanno Barbara e Fortunata, ne trovi ovunque. Il problema è che il regista è responsabile del punto di vista che adotta. E il suo è uno sguardo che non si fa domande, che regala stereotipi pensando di criticarli, crede di essere costruttivo, ma non fa nessuno sforzo per esserlo. E ci racconta con presunzione e superficialità qualcosa di delicato, che ha il diritto di respirare ed essere visto in tutta la sua complessità, fragilità. Fragilità e complessità umane che i due autori sposi hanno seppellito sotto il nome di Antigone, così come la terra ha seppellito suo fratello. E a questo punto non ci rimane nient’altro che una cosa in mano: l’ingiustizia! Ma in fondo a noi che importa? Tanto ce lo dimentichiamo tra poco, siamo una società con l’Alzheimer. »

Conclusione

Gli spettatori di Fortunata con chi si devono identificare? Con gli italiani che delirano come mucche pazze, che si nutrono di se stessi autoalimentando la propria malattia, a cui nulla importa della geografia, della politica, né tantomeno della storia recente che ha portato a quella che è la società contemporanea? Gente che costituisce una base solida, un consenso che permette l’esistenza di pubblicità esotizzanti e ridicole come quella di Dolce&Gabbana? “Buoni » a cui l’Africa permette di avere una buona coscienza? Sì, perché Patrizio e Fortunata di certo si sarebbero indignati all’interdizione di approdo nei porti italiani dell’Aquarius [nave impiegata per la ricerca e soccorso in mare dall’organizzazione non governativa internazionale SOS Méditerranée in collaborazione con Medici senza frontiere] di qualche mese dopo. Di certo avrebbero pianto di fronte alla storia recente del ragazzino del Mali ripescato morto con la pagella cucita nella tasca dei pantaloni. Ma non si sarebbero interrogati sull’ingerenza degli stati e delle multinazionali occidentali nelle ex colonie europee, né avrebbero ammesso i legami causa-effetto delle strategie governamentali attuali, lungi dall’essere esaurite. Ma soprattutto, la loro commozione da quattro soldi non gli avrebbe comunque impedito di ridere d’una barzelletta catartica in cui a un ragazzo africano interessa solo essere bianco, quindi accedere ad uno status che a quanto pare è superiore e più facile da vivere, di volere « tanta fica », per continuare ad esercitare la sua superpotenza sessuale e animale, la sola che gli è concesso avere (per paura che ne voglia altre) e di desiderare tanta acqua, perché un africano che non è nel bisogno, nella necessità, che africano è?

Fortunata è l’apologia di una mentalità fatta di paura, odio e incomprensione. Mentre i titoli di coda passavano, ho pensato alla scena in cui Fortunata e Chicano si scagliano contro questo Sistema fatto di psicologi, banche, leggi, ospedali, immigrazione, tasse, burocrazia. E sapete cosa gridano, per esaltarsi in un fuoco di autodistruzione compiaciuta? Urlano: “Chi siamo noi ?! Er meglio dito in culo !”.

Beh, per una volta non posso che dargli ragione.

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