La Masterclass di Gaston Kaboré

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Vi proponiamo la traduzione in italiano della Masterclass che il regista burkinabè Gaston Kaboré ha tenuto al 60. Festival di Cannes, alla quale abbiamo assistito. La trascrizione francese della lezione è stata pubblicata il 30 luglio sul sito di Africultures.

Animata da Jean-Pierre Garcia, direttore del Festival International du Film d’Amiens, la lezione di cinema di Gaston Kaboré è stata organizzata al Pavillon des Cinémas du Sud dal Ministero francese degli Affari esteri. Il regista Gaston Kaboré dirige in Burkina Faso il centro Imagine, struttura di produzione e di formazione professionale all’audiovisivo, a dimensione regionale. Ecco, qui di seguito, la trascrizione integrale della lezione.

Gaston Kaboré, buongiorno. Può raccontarci come si è costruito il suo lungo cammino verso la realizzazione di film di finzione, verso il mestiere di cineasta? Come si è espressa questa passione? E come ha studiato cinema?
Buongiorno a tutti e grazie di essere presenti a questo incontro. Il mio cammino verso il cinema è stato lungo, perché il cinema è stato una mia passione d’infanzia. A posteriori, mi rendo conto di aver compiuto numerosi passi che, in un modo o nell’altro, mi hanno condotto verso questo mestiere che amo e che mi appassiona. Ma per arrivare alla rivelazione di questa passione ci sono voluti molti anni. Come la maggior parte dei bambini, ero immerso nell’universo del racconto, e la prima forma di racconto che ho conosciuto è stata quella del racconto africano. Questa atmosfera è stata l’humus della mia immaginazione. Ho così imparato ad ascoltare le storie, a penetrarle ed a viaggiare al loro interno. Queste storie non erano raccontate solo da adulti, ma anche da bambini poco più grandi di me, che venivano dal villaggio di mio padre. Loro sono stati i miei professori. Poi, quando ho imparato a leggere, mi sono innamorato della letteratura. Anche la trasmissione radiofonica di Pierre Billard L’anthologie du mystère [L’antologia del mistero, n.d.t.] ha avuto un ruolo importante: ascoltavo tutti i radiodrammi e, quando ne perdevo una puntata, ero disperato.
Dopo il diploma liceale, ho deciso di studiare storia. In fondo era un’altra forma di racconto, con regole diverse. Preparandomi alla mia tesi di laurea in storia, ho notato che l’Africa era stata quasi sempre raccontata da antropologi, etnologi, sociologi… tutti esclusivamente non africani. Dov’era la ricerca dell’Africa su se stessa? Così ho deciso di analizzare la maniera in cui l’Africa era rappresentata, al di là delle parole, attraverso le immagini. Volevo portare avanti questa analisi attraverso la stampa illustrata francese, ed in particolare attraverso Le petit journal illustré. Ho deciso di studiare il periodo 1885-1990, a partire dalla conferenza di Berlino che aveva stabilito la divisione dell’Africa fra le varie potenze coloniali. Si giustificava la colonizzazione con il fatto che bisognasse « civilizzare i selvaggi ». I disegni non erano caricature, ma erano molto buffi, sempre accompagnati da una piccola didascalia. In quanto africano, ed in più in quanto storico, ho sentito la necessità di modificare questo sguardo, poiché era causa di molti equivoci e confronti. Era uno sguardo unilaterale. Quando ho detto al mio professore di storia che volevo intraprendere uno studio iconografico, lui ne è rimasto sorpreso, ma sono riuscito a suscitare la sua curiosità. In questo modo sono entrato in una nuova forma di rappresentazione del racconto, attraverso l’immagine. Certo, non si trattava ancora di immagini animate, ma quando ho terminato la mia tesi, ho capito che tutti i cliché e i pregiudizi che si erano prodotti nei primi incontri con i colonizzatori perduravano. Per rimanere in questo campo di studi, avevo assolutamente bisogno di imparare il linguaggio delle immagini e del cinema. Parallelamente agli studi di storia, ho frequentato anche una scuola di cinema.
Del resto lei è proprio di Ouagadougou, dove, già nel 1969, era nato il Fespaco (Festival Panafricain de Cinéma de Ouagadougou).
Esatto. Avevo già visto alcuni film ed avuto modo di conoscere i pionieri: Ousmane Sembène, Moustapha Alassane, Oumarou Ganda… Avevo visto tutti i loro film, che mi avevano fatto prendere coscienza della necessità per l’Africa di riacquistare la propria voce. I loro film mostravano che la realtà africana era degna di essere filmata e poteva far nascere opere estremamente interessanti.
Alla fine del mio primo anno alla scuola di cinema, ho capito che avevo voglia di utilizzare il cinema come strumento nel campo della Storia, ma anche di raccontare delle storie. Ho conseguito il diploma di regia all’Essec di Parigi, poi, nel 1976, sono tornato a Ouagadougou. Ero destinato a diventare professore di storia all’Università di Ouagadougou ed ho dovuto battermi per poter continuare ad insegnare all’università senza per questo dipendere dal Ministero dell’Istruzione Superiore. Volevo essere libero di fare film, per questo preferivo essere sotto la tutela del Ministero dell’Informazione, che si occupava anche di cinema.
Molte tappe, di cui non ero ancora consapevole, mi hanno preparato a questo mestiere. Non ho mai rimpianto di aver studiato storia: questa disciplina è stata la pedana da cui ho potuto osservare il ruolo e il posto che il cinema poteva occupare nella mia vita.
Il rapporto con il tempo è fondamentale nel suo percorso di cineasta: lei lo ha definito il « valore sociologico del tempo ». In tutti i suoi film, lei ha dichiarato di privilegiare il tempo sociale in rapporto al tempo filmico. Questa posizione esprime un senso estetico determinante in tutta la sua opera cinematografica. Può spiegarci in che modo questo rapporto con il tempo è essenziale per lei?
Il cinema è il luogo deputato alla gestione del tempo. Raccontare la storia di un millennio in una trama di novanta minuti, ad esempio, implica di per sé una stilizzazione del tempo. Questa stilizzazione può tradursi nella contrazione del tempo reale oppure nella sua diluizione: si può raccontare in più ore qualcosa che in realtà è accaduto in un minuto. Ero consapevole dell’importanza del tempo – e sapevo che bisognava fare uso per questo di figure specifiche come le ellissi – ma sapevo anche che avrei necessariamente dovuto tener conto del rapporto che le persone della mia stessa cultura hanno con il tempo. Ad esempio, si dice spesso che gli africani amano molto parlare, ma, nonostante le apparenze, quando si parla è per dire qualcosa di importante. Non si può sempre filmare un’azione nella sua durata reale, ma ho voluto provare a farlo nei miei film, in alcuni momenti, quando questo faceva parte del racconto. In un film, ad esempio, c’è una donna che sta per partorire, ma il travaglio è molto lungo e questo comincia a preoccupare le levatrici. Le donne allora vanno a parlare con gli uomini e spiegano che il problema può nascere da una difficoltà relazionale tra la moglie e il marito. Si crea in questo modo una sorta di comunicazione triangolare, che io ho riprodotto nella sua durata reale. Il film, in fondo, è fatto di rotture, perché il tempo viene di volta in volta allungato oppure compresso.
E poi c’è il tempo nella vita e il tempo nella storia. I miei film devono poter attraversare tutti e tre i segmenti temporali: il passato, il presente e, perché no, il futuro. Dobbiamo essere consapevoli in Africa che il nostro passato è altrettanto ricco di quello degli altri. In Europa e negli Usa sono stati realizzati moltissimi film ispirati ad avvenimenti storici passati: anche l’Africa deve poter fare lo stesso, per affrontare meglio il presente.
Ha parlato del valore sociale del tempo. Nei suoi film ha fatto ricorso all’ellissi, una figura temporale che esiste anche nel racconto tradizionale. Nel racconto tradizionale esiste però anche una sorta di folgorazione del tempo, che può venire dall’uso dei proverbi. Lei ha dichiarato: « Il proverbio è un atomo di saggezza che esplode ». Cosa ci può dire su questo aspetto della narrazione nel racconto? E come si può trasporlo nella narrazione filmica?
Non si potrebbe certo vivere parlando unicamente per proverbi. I proverbi sono pieni di poesia, di sfumature. Sono parole che sono state lavorate per secoli, forse millenni, fino al momento in cui si è arrivati a tradurre in un numero ridottissimo di parole un potenziale di significazione straordinario. Lei dice che questo può servire da ellissi: in effetti, non è più un’ellissi temporale ma una ellissi nella comunicazione. Un proverbio può permettere in dieci secondi di portare a conclusione una situazione anche complessa. In un conflitto, ad esempio. Inoltre quando si ha una maggiore « profondità di campo » nella propria esperienza di vita, si può anche trovare un antidoto al proverbio, una risposta che permette di relativizzare la sua potenza. Nei miei film, io penso i proverbi in mooré, che è la mia lingua, e purtroppo non riesco sempre a trovare un equivalente in francese. Allora li metto tra parentesi, come se fosse una didascalia: « Come dice il proverbio… ». Il mio film Rabi (1992), ad esempio, riguarda l’amicizia tra un bambino e un vecchio. Quando era giovane, il vecchio è stato innamorato, ma non ha potuto vivere fino in fondo il suo amore. Il bambino allora lo convince ad andare alla ricerca della sua amata, che ora ha più di sessanta anni. Quando il vecchio arriva alla sua porta, lei lo guarda e gli dice un proverbio: « Il cane che ha mangiato la pelle del tam-tam osa ancora presentarsi alla festa, il giorno dopo? ». E gli spiega che quando si offende qualcuno, poi non si dovrebbe tornare a sfidare ancora questa persona. Il vecchio riflette e risponde: « Se qualcuno torna dal mercato e appicca il fuoco al proprio granaio pieno di grano, sicuramente è perché deve aver scoperto che con la cenere guadagnerà di più che con il grano ». Si può dunque mettere da parte l’orgoglio e compiere un atto in apparenza suicida, perché si sa che, alla fine, ne sarà valsa la pena. Certo, i sottotitoli non sono mai sufficienti a tradurre pienamente i proverbi ed a preservare il sapore della lingua originale.
Tutti i suoi film nascono da storie originali, non sono delle trasposizioni. Come riesce ad integrare la dimensione del racconto tradizionale nelle sue sceneggiature, sul piano della forma e della struttura?
Il racconto è stata la forma narrativa per me più familiare, e la sola fino a quando non ho imparato a leggere e a scrivere. Non c’è antagonismo né antinomia tra le due forme di racconto [orale e cinematografico, n.d.t.], poiché tutte le culture del mondo hanno iniziato dall’oralità per trasmettere dei concetti che poi si sono precisati con una forma ed una struttura. Naturalmente esistono alcuni procedimenti narrativi specifici, alcune tecniche che sono proprie al cinema. Come fare in modo che i due tipi di racconto si sposino e si fecondino reciprocamente? Non si può mai prevedere il successo di un film, ma i miei film sono stati molto ben accolti nel mio paese da un pubblico popolare. Non mi importa che le persone si domandino: « Questo racconto lo ha inventato o esisteva già? ». Io non sono che uno strumento che mette alla loro portata una nuova storia, come hanno da sempre fatto i cantastorie in Africa. Il più bel regalo che il pubblico può fare a un regista è quello di riconoscersi nella sua storia e di appropriarsene immediatamente, anche se lui ci ha messo anni per scriverla. Un film deve poter aprire nuovi orizzonti al suo pubblico e portarlo più lontano.
Ecco un aneddoto: il primo giorno di proiezione del mio film [Wend kuuni, n.d.t] a Ouagadougou, nella prima sala cinematografica al coperto, 570 posti, lunedì 10 settebre 1982. Ero molto teso. Era la prima volta che mostravo un mio film a spettatori del mio paese, i primi destinatari dei miei film. Quando il film stava per iniziare ero ancora fuori e mi sono avvicinato alla maschera per entrare, ma lui mi ha domandato l’invito. Io ho semplicemente detto che non l’avevo, per timidezza non ho osato spiegargli di essere io il regista del film. Un responsabile della sala è uscito un quarto d’ora più tardi: mi aveva cercato per farmi fare la presentazione del film, ma non mi aveva trovato ed aveva fatto iniziare la proiezione. Così alla fine ho evitato questo primo confronto con il pubblico, e la cosa in fondo non mi dispiaceva. Ma il pubblico ha reagito al film come speravo. All’uscita dalla sala, ho sentito un uomo esclamare « Ma che razza di film è? ». Un altro gli ha domandato: « Perché? Non ti è piaciuto? ». E quello ha risposto: « Sì, l’ho adorato! Ma perché è così corto? ». Il film durava in effetti settantacinque minuti. E l’altro gli ha risposto: « Ma è perché questa è solo la prima parte. Nella seconda, i due bambini si sposeranno ». Insomma, ero già stato spossessato del mio film! Non ero che un semplice narratore. I film hanno una vita autonoma una volta che sono realizzati, iniziano un loro proprio viaggio, ed appartengono tanto allo spettatore quanto al regista. E in effeti, quindici anni più tardi, ho scritto un seguito al mio primo film!
In un’intervista, lei ha dichiarato: « Il cinema non è la pura e semplice trasposizione da un genere (il racconto orale) a un altro (il racconto per immagini). Al contrario, avviene fra i due una sorta di fecondazione. Ci troviamo di fronte a un nuovo linguaggio, in cui lo spettatore riconosce ciò che appartiene alla propria tradizione (il racconto), ma comprende anche l’apporto formidabile dell’immagine. La poesia e l’aspetto epico del racconto convivono: lo spettatore può viaggiare all’interno della sua memoria, pur scoprendo al contempo nuove emozioni ».
Questo non vuol dire però che io voglia realizzare solo film che si inscrivano in questo universo del racconto. Il mio secondo film Zan boko, del 1988, racconta la scomparsa di un piccolo villaggio a causa dell’espansione della vicina città. La città finisce per fagocitare il villaggio, distruggendo anche tutti i legami profondi che la comunità rurale aveva con la propria terra. Nella cultura rurale, infatti, non è la terra ad appartenere all’uomo, ma al contrario l’uomo ad appartenere alla terra in cui vive. Attraverso il film ho cercato di capire se è possibile accedere allo sviluppo, alla modernizzazione verso la quale si tende (e che non è in sé negativa), portando con sé alcune cose fondamentali, una certa lucidità nei rapporti tra le cose, la terra e le persone. Come ci si può sviluppare senza perdersi, e continuando a reinventarsi ogni giorno? Fare film sulla tradizione non è un modo per fossilizzarsi nel tempo, al contrario: ciò che è moderno oggi, tra cento anni farà parte della tradizione. Esiste un rapporto dialettico molto forte fra tutto quello che inventiamo oggi e quello che sarà diventato domani. Utilizziamo sempre l’energia e il carburante di ciò che ci ha preceduto per inventare tutto ciò che è moderno. Quando realizzo i miei film, cerco di esprimere tutto ciò che renderà conto del mio percorso attuale in quanto cineasta, la mia implicazione nella vita contemporanea. Ciò che rimane eterno, sono gli istanti che siamo riusciti a cogliere e che assumeranno domani un valore di eternità, almeno finché i nostri film potranno essere conservati. E’ proprio questa paura di perderci, forse, a darci quel pizzico di genio che ci spinge a creare ogni giorno.
Ma lei ha anche dichiarato che « filmare è cogliere l’istante e renderlo eterno »: dunque pensa che questi film dureranno?
Sì… E in ogni caso permetteranno a milioni di spettatori di condividere un qualcosa che è nato dall’idea di un singolo individuo. A volte capita che una persona possa addirittura rimettersi in discussione proprio guardando un film. È capitato a tutti noi di ascoltare un certo brano musicale ad una certa età perché quella musica ci ricordava una certa fase della nostra vita. Anche i film sono, come le canzoni, delle pietre miliari nella vita di molte persone, e possono insegnare a strutturare le proprie riflessioni e a porsi delle domande.
Nei suoi film, ha lavorato indifferentemente con attori professionisti, non professionisti e bambini. Come organizza il suo lavoro con gli attori?
Bisogna dire che in Africa si lavora soprattutto con attori non professionisti, perché è molto difficile vivere di questo mestiere. Nonostante questo, molti di loro hanno acquisito una grande esperienza nel corso degli anni, fino al punto di poter competere perfettamente con gli attori professionisti, che vivono della loro professione. La fase del casting è molto delicata, perché non si sa come queste persone reagiranno davanti alla macchina da presa. Riusciranno a sopportare il peso di interpretare un personaggio fino in fondo? Allora cerco di stabilire con loro un legame forte, già molto prima dell’inizio delle riprese, raccontandogli la storia del film per vedere le loro reazioni e rispondere alle loro domande. Ci si vede regolarmente per discuterne. Spesso si tratta di film in cui non c’è molta azione: diventa quindi ancora più importante l’interiorità dei personaggi. Insomma, bisogna stabilire con loro una sorta di complicità.
Per il mio primo film, Wend kuuni (1982), ho preferito lavorare con attori che facevano teatro radiofonico piuttosto che con attori abituati a calcare il palcoscenico. È stato un rischio, ma in questo modo non ho dovuto passare troppo tempo a correggere ciò che il teatro gli aveva insegnato. Si dice che il teatro è l’arte dell’esagerazione…
Per quanto riguarda i bambini, spesso si tratta solo di fortuna. Bisogna subito fargli capire che non devono gigioneggiare, che non devono interpretare semplicemente il loro ruolo di bambini, ma un vero e prorpio personaggio.
Amo molto vedere le reazioni della gente del villaggio dove ho girato un film. Sono molto contento se qualcuno mi chiede: « Ma il contadino del suo film da quale regione viene? ». Le persone sono talmente conquistate dalla recitazione dell’attore che non capiscono che si tratta di qualcuno che sta interpretando un ruolo. È formidabile.
Sono stato sempre molto riconoscente verso tutti gli attori che hanno recitato con me, perché so che hanno dato il meglio di se stessi. Hanno molto istinto, intuizione, e tutti mi chiedono spesso se si tratta di attori professionisti.
Come si inseriscono i suoi film nella vita di villaggio? L’intrusione di un set cinematografico in un villaggio può avere conseguenze gravi?
Cerco sempre di instaurare rapporti personali con gli abitanti del villaggio. Racconto loro il mio film, perché in fondo, per loro, si tratta di una storia come un’altra. Dopo il mio primo film, mi hanno chiesto: « Perché ha scelto questo villaggio per girare questa storia? ». Io gli ho risposto: « Perché non è troppo lontano da Ouagadougou, e poi ci sono belle colline… ». Loro invece avevano pensato che fosse per un altro motivo: in quel villaggio un bambino era stato veramente trovato nella savana, era stato adottato ed ora viveva lì. Quindi avevano paura che io avessi saputo di questa storia e volessi raccontarla, perché questo avrebbe in qualche modo fatto del torto alla famiglia di questa persona. Cerco di non fare mai veramente « irruzione » in un villaggio, perché gli abitanti conducono la propria vita e il film racconta una parte della loro storia: anche se si tratta di finzione, non voglio comunque passare per un voyeur.
La gente ha bisogno di appropriarsi dei nostri film, soprattutto le persone del mio paese, dei villaggi. L’importante è che si riesca a fare in modo che la loro storia, la loro musica (che ho utilizzato in uno dei miei film), la loro lingua, l’ambiente in cui vivono e il loro modo di vita siano resi degni di interesse e possano viaggiare attraverso il resto del mondo, perché rappresentano storie di vita vissuta, di esseri umani che si esprimono. In questo senso il cinema è veramente uno strumento di comunicazione importante. Lo studio della storia mi ha fatto prendere coscienza di alcune cose, ma non ho alcun rimpianto di aver fatto dei film. Riesco a dire più cose con il cinema di quanto avrei potuto dire in quanto storico.
Come si è svolto il lavoro di montaggio per il film Buud yam [del 1997, n.d.t.]?
Il montaggio è una tappa essenziale: molte cose ancora possono essere fatte in questa fase. Si può continuare a depurare il film fino a portarlo a maturità.
Ho lavorato con la montatrice Andrée Davanture, che ha montato molti altri film di registi africani, fra cui quelli di Souleymane Cissé. Ha una grande capacità di ascolto. È una persona estremamente generosa e curiosa, che vuole entrare all’interno della narrazione così come è stata concepita dall’autore, perché questo è parte della sua cultura, della sua eredità. Desidero veramente rendere omaggio al suo lavoro.
Spero di continuare ad avere anche nel futuro sempre abbastanza tempo da dedicare alla riflessione sul montaggio, perché è questo che permette ad un’opera filmica di avere più respiro, più profondità. Certo, bisogna dedicargli molto tempo, e invece spesso bisogna affrettarsi quando si sono terminate le riprese. Nell’istituto che ho creato a Ouagadougou, il montaggio è uno degli aspetti su cui insistiamo di più. Oggi con una macchina da presa si può filmare tutto, ma per dire cosa? Il montaggio non è solo un’abilità o una competenza puramente tecnica.
Lei è convinto dell’importanza della trasmissione: di un sapere, ma anche di un’esperienza umana. E così ha deciso di creare un centro di formazione all’audiovisivo. Ci parli di Imagine.
Quando si ha la fortuna di insegnare, chi insegna è anche quello che, alla fine, impara più cose. Nella trasmissione della conoscenza, siamo obbligati a metterci in discussione, a porci alcune domande che non ci saremmo mai chiesti da soli. Io ho iniziato ad insegnare in maniera molto naturale, ed ora non riesco più a distinguere fra il mio mestiere di cineasta e la necessità di condividere quel poco che so. Ma adoro anche continaure ad imparare. Ho molto amato la lezione di cinema di Newton Aduaka, perché mi ha trasmesso la voglia di continuare a fare il mio mestiere.
Ho creato l’istituto dell’audiovisivo Imagine per essere, insieme ad altri colleghi, l’anello della catena che permetterà a persone più giovani (registi e tecnici) di imparare il mestiere, di osare aprire nuove porte, spingere più in là il proprio orizzonte. Non si tratta di una formazione cinematografica di base, ma del consolidamento del mestiere. Questo rientra anche nella linea delle ambizioni della Federazione Panafricana dei Cineasti: fare in modo che in Africa ci siano professionisti veramente competenti. L’ambizione e il talento non mancano, ma bisogna apprendere un mestiere per poter realizzare dei film. Occorrono anche buoni direttori della fotografia che conoscano la scultura e la pittura africane, poiché è solo attingendo a tutte queste fonti che possiamo realizzare qualcosa di nuovo. La musica africana è riuscita ad ispirare tutto il mondo, andando al di là delle frontiere del nostro continente. Anche in campo cinematografico arriverà il giorno in cui riusciremo tutti insieme, nella diversità come nella singolarità, ad apportare qualcosa di specifico al patrimonio cinematografico mondiale. Questa è la mia convinzione ed anche il mio augurio.
Quindi lei vuole continuare a trasmettere questa eredità culturale, per far sì che i giovani cineasti di oggi possano creare dei racconti che si appoggino su una base storica, sulla memoria della propria cultura.
Esatto. Si dice che il cinema sia la sintesi di tutte le altre arti. Il cinema è il crocevia di tutte le altre forme di creazione, perché esso attinge da tutti i campi artistici. Il nostro cinema non ha ancora cominciato a beneficiare di tutta la ricchezza delle forme d’espressione artistica esistenti in Africa. È normale però che i giovani d’oggi abbiano un altro punto di vista. Imagine è un luogo in cui vogliamo insegnare ai giovani ad avere una mente libera, a fare il tipo di cinema che vogliono fare, perché nessuno deve essere condizionato nelle proprie idee. Più avremo uno sguardo vasto sul mondo e sulla nostra cultura, più saremo capaci di produrre opere che parlano non solo al loro pubblico primario, ma anche al resto del mondo.

A cura di Maria Coletti.
Traduzione dal francese di Maria Coletti.

Cette traduction a été publiée sur le site Cinemafrica [ici]///Article N° : 9981

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